Screenema

The danish girl, una storia d'amore a tutto tondo

L'ultimo film di Hooper ricorda l'arte pittorica fiamminga

Lo ammetto, ancor prima di The Revenant e dopo soprattutto, sono stata una grande sostenitrice e promotrice dell'Oscar a Leonardo Di Caprio (e sono contentissima che lo abbia vinto) ma sino a pochi istanti prima della consegna del premio, avendo visto The danish girl ho temuto che il buon Redmayne glielo avrebbe soffiato da sotto il naso. Sì, perché Eddie Redmayne non è semplicemente coinvolgente nei panni di Einar Wegener/Lili Elbe ma è delicatamente emozionante a tal punto da essere travolgente e commovente. Insomma un bell'ostacolo nella corsa alla tanto agognata statuetta per il novello fiore all'occhiello di Iñárritu. Sappiamo tutti, poi, com'è andata a finire.

Ma facciamo un passo indietro: The danish girl non è solo la storia del primo uomo sottopostosi ad un intervento chirurgico di riassegnazione sessuale, tutt'altro. Questo, probabilmente, è solo il pretesto per parlare di un uomo, Einar Wegenr, appunto, che ha avuto il privilegio di poter vivere due vite grazie ad un amore che si è nutrito di quella elegante intelligenza capace di condurre la relazione con sua moglie Gerda oltre i confini della semplice liaison matrimoniale. Un amore totale, completo e a tutto tondo, quello di chi sa amare al punto tale da essere disposto a scambiare la luce con il buio, facendo nascere Lili e uccidendo Einar, lasciandolo sfuggire dal dipinto e svanire, per sempre. Un amore che si consuma tra le gradazioni di colore, l'intensità della luminosità e la profondità delle linee di fuga come in ogni dipinto di impronta fiamminga che si rispetti. Un amore puro e vero oltremodo, oltre i corpi (sbagliati). Così la vita di Lili inizia a venir fuori dai quadri di Einar e l'arte pittorica si fa arte di vivere e arte di amare. La mutazione fisica diventa spirituale e attoriale. Redmayne dà al suo personaggio il meglio di sé avviando una trasformazione, che è conoscenza, a partire dalle estremità del suo corpo: le mani, le caviglie, lo sguardo fino a manifestarsi a fior di labbra accuratamente tinte di rosso. Redmayne conduce lo spettatore alla scoperta della sensibilità di un'anima incastrata in un corpo che non le rende giustizia. In tutto questo, Gerda/Vikander fa da motrice, è la scintilla che innesca il processo, lo sguardo lungimirante di una compagna che è riuscita ad amare oltre la corazza, sotto la superficie. È lei la danish girl del titolo, la protagonista che rende possibile la storia e la sua evoluzione. È lei che fa da filtro alle emozioni, che rielabora e governa le sorti della guerra tra Einar e Lili, portandone i segni. Nobili ferite che la giovane Alicia Vikander mostra grazie ad un talento notevole (l'Oscar, non c'è che dire, ci sta tutto) e con la discrezione rispettosa e distintiva di chi, come la sua Gerda, ha imparato ad urlare in silenzio e che, messa di fronte alla tragica ineluttabilità della perdita, piuttosto che ostacolarla, ha scelto di correrle incontro, di assecondarla, di abbracciarla. Per amore.

Muovendosi sempre in ambienti dal gusto retrò, dopo Il discorso del re, anche questa volta la regia dal tocco leggiadro ma penetrante di Tom Hooper ci racconta i limiti dolorosi che rendono gli uomini speciali, l'accettazione dei limiti che li fa grandi e la volontà di superarli che li consacra immensi.

(Un consiglio: se potete, vedetelo in lingua originale. Il doppiaggio in italiano stride con la scenografia, con i costumi e con luoghi e il tempo del racconto).
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