Luciano De Pascalis
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Commento

Afghanistan, De Pascalis: "Occidente e stato di eccezione"

Dal giovane laureando in giurisprudenza Luciano De Pascalis, una riflessione giuridico-politica su un ventennio inconsistente

Nel 1974 il filosofo del diritto Carl Schmitt sosteneva, nel suo saggio 'Nomos della Terra', che "una linea globale suddivide il mondo in due metà, una delle quali buona e l'altra cattiva, ed è una linea di valutazione morale che assegna il più e il meno. Essa dà una risposta permanentemente negativa all'altra parte del pianeta".
Gli Stati Uniti d'America, seguiti da un'Europa sempre più svuotata di senso e incapace di restare ancorata ai propri valori politici liberali, del diritto internazionale e del dialogo fra i popoli, dopo la caduta della perenne contrapposizione con il socialismo reale di matrice sovietica, hanno esercitato una supremazia militare e imperialista, asservendo le proprie strategie ad una fantomatica globalizzazione imposta del capitale.
E' facile osservare come le tecniche varino al variare del 'nemico' che si fronteggia: se da una parte, infatti, lo scontro con la crescente Repubblica Popolare Cinese ha portato nell'ultima decade ad una intensificazione dei rapporti diplomatici e commerciali con l'Unione Europea, ma soprattutto con gli ex membri del cd. blocco sovietico e di qualche ex 'paese non allineato' o surrogati post-jugoslavi, al fine di evitare una pericolosa attrazione degli stessi nell'orbita gravitazionale del commercio cinese, dall'altra ha comportato una lotta sans merci nel Nord e Centro Africa; ma soprattutto si è giunti a quello 'scontro di civiltà' con i paesi del Medioriente, che oggi mostra la propria inconsistenza pratica ed il proprio volto inumano su volti di esseri umani disperati.
Parafrasando il fine filosofo e giurista italiano Giorgio Agamben, quel lembo estremo dell'Occidente, che ne è anche - usando un gioco di parole - il più estremista, in seguito all'evento più traumatico della propria storia recente – segnatamente l'abbattimento delle Twin Towers del 11 Settembre 2001 – ha reso un servigio alla eterna collocazione del concetto di stato di eccezione nella querelle centenaria tra due formidabili campioni del puro diritto come Walter Benjamin e Carl Schmitt, risolvendola nettamente a favore del primo.
Questo, altro non è che una, tacita o esplicita, negazione delle regole comunemente accettate in virtù di una situazione di straordinaria eccezionalità, al fine di riportare in auge uno status quo ante che si presume violato. Tale è stato, recentemente, il modello assunto per la risoluzione del problema pandemico causato dal virus 'Cov-Sars19', del quale portiamo ancora evidenti ed irrimediabili strascichi; ma più semplicemente tale è la legislazione di guerra, momento in cui appare l'eccezionalità nella sua connotazione più lampante.
Già nei primi anni del Novecento Benjamin notava come lo stato di eccezione fosse uno spazio di anomia, assenza del diritto da se stesso, né premessa né conseguenza della legge, in cui la violenza pura emerge come strumento di lotta politica, auspicando altresì un passaggio da uno stato di eccezione emergenziale (a questo punto contraddizione in sé e per sé) ad uno effettivo, nel quale vi avrebbe trovato spazio il finale riscatto degli oppressi. E infatti, come scrive Agamben in 'Homo Sacer', facendone una foucaultiana archeologia, lo stato di eccezione ha perso da un secolo a questa parte quella connotazione emergenziale, divenendo sempre più regola governamentale, smontando quindi la risposta schmittiana alle tesi di Walter Benjamin, secondo la quale esso altro non è che un intervento anomico, pur violento, della 'auctoritas' per stabilire un nuovo 'nomos'. In altre parole, il diritto posto tramite la propria temporanea premessa e condizione di esistenza.
Quella che dopo vent'anni può essere ormai considerata una invasione, da parte delle forze del Patto Atlantico, del territorio afghano, ha segnato il punto di svolta nella mondializzazione dello stato di eccezione, attraverso la sospensione di ogni norma del diritto internazionale e la conseguente negazione dei diritti umani, al fine di ristabilire l'ordine politico e l'applicazione di quelle norme fondamentali, violate in prima battuta dalle stesse forze occidentali. E' in questa contraddizione in termini che si nota chiaramente la tautologia del potere di questa parte di mondo, che per considerarsi democratico e laico, per nutrire l'apparato amministrativo di sicura cultura liberale, necessita di uno spazio vuoto e anomico in cui difendere questi caratteri essenziali dell'atlantismo: ovunque vi sia la negazione dello schema giuridico occidentale è necessario affermare con la forza un potere politico che assicuri pace e libertà, utilizzando la forza e i metodi dell'oppressione.
Significativo di tale assunto è proprio la dottrina elaborata dal presidente George W. Bush all'indomani dell'attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono.
Il nemico dell'Occidente è l'Islam radicale, che prima o poi attaccherà di nuovo il cuore dei valori liberali: perciò si è legittimati ad azionare manovre di difesa preventive volte ad evitare ciò, al fine di ricercare ed annientare quei criminali che assumono come modello quello presentato come ostile. Per fare questo è necessario sospendere le norme di diritto internazionale ed innestare i valori democratici nei territori dove questi ultimi agiscono indisturbati.
Questo è molto più del banalissimo concetto di 'democrazia esportata', perché, come scrive Schmitt in 'Nomos Della Terra', poche pagine prima della citazione di apertura: "la discriminazione del nemico come criminale e la contemporanea assunzione a proprio favore della justa causa vanno di pari passo con il potenziamento dei mezzi di annientamento e con lo sradicamento spaziale del teatro di guerra. Si spalanca l'abisso di una discriminazione giuridica e morale altrettanto distruttiva", ed ancora "nella misura in cui oggi la guerra viene trasformata in azione di polizia contro turbatori della pace, criminali ed elementi nocivi, deve essere anche potenziata la giustificazione dei metodi di questo police bombing. Si è così indotti a spingere la discriminazione dell'avversario in dimensioni abissali".
Lo stato di emergenza permanente, evidenziato da vent'anni a questa parte del meccanismo delle guerre umanitarie in Medioriente, mostra oggi i suoi effetti inconsistenti ed inconcludenti nella ripresa del potere in Afghanistan da parte degli 'Studenti del Corano', come se queste due decadi appena passate di storia contemporanea non fossero mai avvenute. Ed infatti, a parte la parvenza di occidentalizzazione del popolo afghano – compresa quella degli stessi Talebani, che adesso potranno porre in essere un dominio più subdolo che passi anche attraverso la propaganda ed una finta modernizzazione dei costumi, al fine di tenere a bada l'opinione pubblica occidentale – nulla sembra essere cambiato, senza contare il "grande successo americano" dell'uccisione del capo di Al-Qaeda, Osama Bin Laden.
Dallo spazio vuoto di anomia creato dall'intervento della NATO in Afghanistan, non promana alcun diritto positivo, alcuna democrazia simil-occidentale.
Ma qualcosa è rimasto, di questa guerra civile mondiale. E tale è la disperazione su volti umani, di persone che per vent'anni hanno sperato nella liberazione dalla oppressione, inconsapevoli di essere preda di un altro tipo di questa, e che oggi si ritrovano ad avere occhi spaventati, domani ad essere profughi politici, dopodomani immigrati.
Citando ancora una volta Agamben, la retorica manichea del conflitto di civiltà ha prodotto, ancora una volta, "soggetti giuridicamente innominabili ed inclassificabili, oggetto di una pura signoria di fatto" , carne esposta alle intemperie delle prossime politiche propagandistiche, quella "nuda vita" di Benjamin che sarà oggetto di future emergenze connotate dalla provvisorietà, di futuri stati di eccezione nel nostro mondo occidentale ed in quello più estremo, americano, attraverso cui il potere continuerà ad alimentarsi e a produrre nel breve periodo.
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