On Writing

Sentenziare un à propos de la noia

Di Riccardo D'Ercole

C'è un momento della sera in cui tutti se ne vanno per i fatti loro. Si ritirano, dietro gli usci logorati delle porte anziane. Si escludono da quello che c'è fuori, con gli occhi pieni di stanchezza. Girano la chiave nella toppa e sognano solo il divano, mezzi sopiti, mentre il notiziario ripete la tiritera giornaliera.

In quel momento anche io mi spengo. E la città diventa tutto un soffio disincantato d'amarezza. La pioggia batte sincopata e monotona sul grigio piombo che riveste tutto. Io esco di casa e sospiro, mi rivolgo a tutto l'universo maledicendo ogni cosa, attendendo il riscatto mio e dei miei fratelli. Essi si sono persi nel tumulto paradossale di quest'epoca. E ogni bacillo di niveo candore si frantuma sotto un cielo finto come la pubblicità. Si sente solo il rumore delle auto lontane che scorrono alla spicciolata, nutrendo queste ultime ore serali di presenza.

La mia passeggiata è una ricerca di senso, ogni mia singola molecola è tesa e protesa nella percezione di un qualche evento, mentre al contrario una faccia intontita si sofferma su di me, confermando il piattume di questa piccola parentesi del divenire.

In una di queste mie passeggiate ha luogo questa storia.
Me ne andavo bazzicando le solite strade, con aria da spocchioso, il bavero della giacca dritto controvento. Le case popolari mi accompagnavano, sostenendo con i finestroni spalancati e quelli chiusi il ticchettare dei miei passi, che unito a quello dei miei pensieri faceva un concerto niente male. Avevo lavorato molto quel giorno alla stesura di qualche articolo per la redazione e me l'ero sbrigata tardi per tornare a casa, fermandomi a chiacchierare col barista del più e del meno, dopo la solita birra.

Una volta rientrato avevo salutato il silenzio che contiene l'appartamento, con tanto di ronzii scoraggianti. Poi una doccia e un panino imburrato. Il tutto coronato da una merit abbandonata sul tavolo da chissà quale avventore distratto delle mie sporadiche cene fra amici. E me ne sono andato.

Un'altra sigaretta era accesa fra le mie mani mentre costeggiavo il parco, guardando gruppi di persone muoversi ostinati. I genitori seguivano passo passo i loro figli mentre questi ultimi scorrazzavano come in un vortice fra lo scivolo e l'altalena. E io quasi mi spiaccicavo su un palo per fissare quelle movenze materne nella mia coscienza, per udire quei gridolini bisticcianti, imprimendoli nei miei ricordi.

Tutto mi sembrava ciò che non era in realtà: case-mostri attendere le loro prede nel silenzio, strade-donne accogliere il marito alla porta per la cena. E il cielo un fondo di cartone malappiccicato, a sovrastare la plastica cancerogena materia del nostro esserci.

Ero fuori-contesto, fuori-misura, e una noia brutale mi scatenava strenui sorrisi sul volto.
In quel momento lui fece la sua comparsa, ondeggiando sopra il carro bianco, trainato dal dovere. Il raccoglitore di monnezza faceva la spola tra un lato e l'altro della carreggiata, in una corsa mistica. Era il Sisifo dei bidoni. Una barba ispida gli conferiva un'aria da saggio sognatore. Mi accorsi ben presto dell'odore di alcool che l'accompagnava, fido compagno di lavoro. Il giubbotto catarifrangente mi colse alla sprovvista mentre gli belavo un cenno di saluto. Non corrisposto. Affatto.

È il racconto del niente, che pure accade, continuamente.
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