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Bambini al mare

Di Lella Agresti

Si cantava a squarciagola Stasera mi butto nella Fiat 600 bianca sulla strada del mare. Noi bambini dietro, nel bagagliaio. A un certo punto si scendeva perché la strada in salita faceva andare il motore in ebollizione e c'era il rito maschile di attendere e aggiungere acqua.

«Ma dove è?» ci chiedevamo stizziti da tanta attesa. Poi la distesa azzurra e blu si faceva più vicina e noi correvamo accaldati sulla sabbia bollente.
«Niente bagno, avete appena mangiato». Ci ammonivano.
E di rimando, in coro, come una ciurma di piccoli corsari: «Allora qui che ci siamo venuti a fare?»

Nulla faceva cambiare idea ai grandi. Sconsolati ci prendevamo una bella scottatura al sole, perché la Nivea con la quale ci impiastricciavano sortiva l'effetto contrario, riducendoci a cotolette impanate.

Passavamo tutto il tempo a giocare e a correre, io e gli altri bambini, e ogni occasione era buona per mettere i piedi in acqua.
Qualche volta, però, con una scusa mi allontanavo perché c'era lei. Era bellissima, così bionda da sembrare albina. Era una delle bambine della famiglia che aveva la cabina accanto alla nostra e si riparava sotto la sdraio. Quelle di una volta, di stoffa a strisce gialle e verdi, riservate solo ai grandi.
Sì, perché i grandi godevano di tutti i privilegi: sedersi sui sedili in auto e non nel bagagliaio; sprofondare sulla sdraio o non usarla a proprio piacimento; servirsi per primi a tavola per aggiudicarsi il boccone più gustoso.
Lei, la bambina dai capelli biondi, amava giocare con la sabbia.
Mi piaceva guardarla, ma non volevo che lo sapessero gli altri. I miei fratelli, i miei cugini, insomma gli altri maschi, che altrimenti mi avrebbero fatto nero, prendendomi in giro per tutta l'estate.
Fingevo, così, di scavare una buca e non la perdevo di vista.

«Esci di lì» le gridava la sua amica dai capelli rossi e con le lentiggini sul naso. Le stava davanti, in piedi, come un ombrellone.
«No».
«Dài, facciamoci il bagno».
«Non posso».
«Noi puoi?» la scherniva ridendo, «Ma dài, non ci vedono e poi non ci succede niente. Non vedi che qui non c'è nessuno?»
«Se mi scoprono sono guai» rispondeva la bambina bionda senza guardarla negli occhi.
«E dài!»
«Ti ho detto di no e no!» ribadiva secca.

Dalla radiolina a transistor arrivava la voce di Mina che cantava La banda. Qualcuno la fischiettava.
Uno dei miei fratelli con insistenza mi richiamava per seguirlo nel gioco delle bocce.
Con un gesto eloquente del braccio lo lasciavo perdere. Volevo stare lì e sapere come andava a finire fra le due bambine.
«È che sei una fifona! Una senza coraggio. Sei una bambina piccola, che ha paura dell'acqua. Cosa te ne fai di quel costume nuovo? Sembri la Pantera Rosa».
La bambina dai capelli rossi avanzando si era inginocchiata di colpo, sotto il peso delle sue parole. Era vicinissima alla sua amica bionda. Le faceva delle smorfie.
«Sei forse sorda?» le urlava in faccia. «Perché non mi rispondi?»
Era partita rapidissima una pioggia di granelli dorati. La bambina bionda aveva riempito la bocca della sua amica con un pugno di sabbia.
Ero divertito e sorpreso. Nonostante la luce accecante e il sole a picco, tutto all'improvviso sembrava freddo. Il mondo si era fermato e tratteneva il respiro.
Poi era partito l'urlo strozzato della bambina dalla testa rossa e si era scatenato un parapiglia generale.
La povera bambina candida fu sommersa dalle voci concitate dei grandi: «Cosa hai fatto?», «Chiedi scusa», «Non ti permettere».
Volevo aiutarla, fare qualcosa, ma mi stavano strattonando.
Era mio cugino che aveva colto il momento giusto per tentare la fuga verso il mare. Con gesti rapidi e occhiate d'intesa corremmo, in barba a tutto e a tutti. Finalmente in acqua, a giocare con i cavalloni, a spruzzarci, a fare tuffi e capriole, da veri lupi di mare.
Le grida lontane e le braccia agitate delle mamme che ci richiamavano a riva avevano lo stesso potere della schiuma del mare. Sparivano in un batter d'occhio come noi fra le onde.
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