On Writing

Oro e miele. Pensieri di un viandante

Di Davide Tattolo

Mi sento come in una tragedia greca. Mi strapperei gli occhi per vedere con meno durezza il mio volto. Mi sento un cavallo zoppo cui stanno per sparare in mezzo agli occhi. Mi sento come un cane randagio con il pelo avvolto dalla rogna. Mi sento come un cane qualunque.

Quante persone ci sono, che vediamo passare dalla finestra di casa come cani vagabondi. E allora sorridiamo, pensando che non li rivedremo mai più. A volte, mentre cammino, penso che forse in qualche finestra sconosciuta ci sia qualcuno che mi guarda così.
Non ho uno scopo, una mano da stringere o un fuoco da condividere, cammino e basta, cercando di sentirmi a casa nel mondo. Prima avevo una casa, ma era solo un tetto uguale ad altre centinaia di tetti. Ora cammino. Mi piace camminare. Di solito oggigiorno la gente quando cammina ascolta la musica o va così di fretta che non ascolta nulla. Poi c'è chi ascolta i propri pensieri, ma quelli sono camminatori notturni. Io, mentre cammino, invece, non ascolto nient'altro che i suoni delle città con il caos dei loro rumori o i canti delle foglie e delle spighe nelle campagne.

Di tanto in tanto incontro qualche vagabondo, ma la maggior parte delle volte sono ubriachi e non riescono a parlare. Quando sento il loro odore di alcool e vedo le loro labbra e i loro denti gialli tinti di vino, sento addosso a me un manto di malinconia.
Certe volte, per pochi spiccioli, mi compro una bottiglia e mi siedo accanto a loro. A noi bastano gli occhi umidi e nostalgici per capirci. Non ci diciamo niente, ognuno di noi è lì fermo a guardare il mondo dal collo di bottiglia.

Ci insegnano tante cose fin dall'inizio, ma nessuno può insegnare quanto possa essere gelido l'inverno; per quanto ti copra non è mai abbastanza e, a poco a poco, percepisci la pelle secca che si strappa sulle mani, sulle labbra, e tutto il volto si fa livido e i denti battono.

Ho cercato rifugio ovunque, nei treni merci abbandonati, sotto i ponti di cemento armato, nelle case d'accoglienza. Ricordo una volta di aver visto, in uno di quei posti di carità, pochi telefoni sempre occupati dalle mille chiamate della gente. La notte, quando non c'era nessuno per i corridoi, mi piaceva svegliarmi e alzare la cornetta con l'ingenua speranza che qualcuno rispondesse.
D'altra parte, solo i singhiozzi del telefono.

Non avevo mai pensato durante il mio viaggio di andare verso il mare, fino a qualche giorno fa. Non ho idea del perché abbia deciso di avventurarmi verso il mare d'inverno, probabilmente perché mi ricorda l'estate. Le lunghe e calde giornate, i dolci frutti estivi che tanto amo, i sorrisi delle persone che sembrano più felici sotto il sole d'agosto. Già sembrano tutti un po' più lieti d'estate, ma forse non è così. Ho deciso di raggiungere il mare andando verso est perché a oriente il sole sorge prima.
Mi dispiace per tutte le volte che, andando in spiaggia, non ho alzato lo sguardo per vedere le nuvole passare o essermi voltato a guardare i bambini giocare. Credevo però che le cose sarebbero andate diversamente.

Penso spesso ai progetti delle nostre vite: come fossero scaffali su cui ogni cosa resta lì, immobile, a prendere polvere e ad aspettare che le nostre pigre mani la afferrino.

I passi si fanno sempre più lenti e io sono sempre più stanco. Manca ancora un giorno di cammino; ora si è fatta notte e la febbre è salita e si fa sentire ancora di più. Ho la testa leggera e gli occhi trasognanti. Mi piacerebbe del miele adesso. La mia bocca è amara come l'assenzio ma domani spero di vedere la dolce alba e il mare colorarsi di oro e miele.
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